Un taxista, gli schiavi neri e la fotografia in mostra
Oggi si chiama Benin, una volta era il regno del Dahomey. E’ una striscia di terra, lunga e stretta, che si affaccia sul Golfo della Guinea. Dal Dahomey partivano i vascelli carichi di schiavi, che i commercianti arabi avevano razziato all’interno dell’Africa.
Anni Settanta del secolo passato: Chatwin era un irrequieto inglese che, in Dahomey, raccoglieva materiale per il romanzo Il Vicerè di Ouidah. Più modestamente io, per una rivista di viaggi, percorrevo le stesse piste, rosse di polvere, fotografando i ricordi dell’antica religione: i feticci, statue raffiguranti divinità del pantheon animista. “Feticcio: oggetto inanimato al quale viene attribuito un potere magico o spirituale….” Recita la Treccani. Il mattino del 6 giugno 1944, sulla spiaggia della Normandia, non c’era solamente Capa: accanto a lui anche numerosi cineoperatori. In Viet Nam, a fianco di un Larry Burrows, che lavorava con la fotocamera, c’era chi lavorava con la cinepresa. Nessuno ricorda quei nomi, anche se bravi, bravissimi. Le loro immagini, come quelle degli attuali videoreporter, hanno il torto di non poter essere stampate nelle pagine di un giornale, appese in mostra, vendute in copie numerate. Il marketing ha incontrato la fotografia e sono nati altri Feticci. Mostre, eventi culturali, lectio magistralis si chiamano. Ti ringrazio Laurent Dieudonné che, col tuo sgangherato taxi, mi portasti ad Abomey, Ouidah, Cotonou, Porto Novo. Non lo sapevo, ma mi stavi aiutando a capire meglio la fotografia. (E.P.)
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