Negli anni Cinquanta del secolo passato, se cercavi un fotografo lo trovavi a Scanno in Abruzzo o a Nazarè in Portogallo. Erano i luoghi deputati per chi voleva la bella immagine, non scevra
da ambizioni antropologiche. Nei Sessanta, invece, quel fotografo presenziava a Woodstock, Stato di New York. Nei Settanta documentava i manicomi. Maturava la legge Basaglia.
Ogni epoca ha miti e riti. Anche la fotografia. Oggi vanno i Balcani e le isole greche, per via dei migranti. L’Ucraina è passata in secondo piano. Luoghi facili da raggiungere e poco costosi. La guerra in Siria attrae, ma è rischiosa. Un gran affollarsi di giovani, spesso inesperti e pericolosamente pasticcioni, mi confidava Paolo Siccardi, che di quei luoghi s’intende. Concerned photographers, secondo la definizione che Cornell Capa diede loro e ad alcune mostre di reportage. Era il fratello meno famoso di Robert. Come Robert, di cognome faceva Friedmann ma, in ambito fotografico, chiamarsi Capa era più vantaggioso.
Di questi giorni, la notizia che alcuni fotografi avrebbero pagato migranti perché inscenassero finti naufragi, davanti alle spiagge della Grecia. Le cattive abitudini sono dure a morire. Basti guardare la quantità di bambole, miracolosamente intatte, sparse tra le macerie dei bombardamenti del vicino oriente. O le scarpe di certi incidenti stradali che camminano da sole, per mettersi a favore di camera, secondo l’inquadratura. Riti e miti dell’essere testimoni della storia, piccola o grande che sia, con una voglia di protagonismo.
Fabrizio Del Dongo, ne La Chartreuse de Parme, di Stendhal, è sul campo di Waterloo quando, nel turbinare della battaglia, è sfiorato da un gruppo di cavalieri. Vicino a lui si alza un grido: Vive L’Empereur. Non equivocò. Quel grido non era per lui. E.P.