Ultima Thule, nel linguaggio comune è la meta difficile da raggiungere. Nella realtà, Thule è una isola boreale avvolta dalle nebbie della leggenda. La descrisse per primo il greco Pitheas salpato, intorno il 330 a.C.
dal porto di Marsiglia, per esplorare i mari del Nord. Tra tempeste e venti gelidi approdò, dopo sei giorni di navigazione dalle coste della Gran Bretagna, in una terra di ghiacciai e vulcani sulla quale “il sole non tramonta mai”. Anche lo storico romano Tacito ne accenna in “De vita et moribus Iulii Agricolae”, opera dedicata alla conquista dell’allora Britannia. Thule fu successivamente identificata con l’Islanda, la Groenlandia, le Shetland o le Fær Øer. Insomma: un’isola in capo al mondo.
Il geografo Olao Magno, nel 1539, addirittura la raffigura in una carta, indicandola come Tile e lambita da acque frequentate da mostri marini, balene, orche.
Un’ultima Thule è nei sogni di ognuno di noi. Luogo perso nelle nebbie della geografia e delle menti avventurose. In questi tempi le isole, che la tradizione designa come Thule, sono reale meta di fotografi. Vlogger, testimonial, ambassador tornano a casa con bottini d’immagini boreali: scogliere a picco sul mare, cascate precipiti nell’abisso, lande battute dal vento. Come sono le highlands della Scozia, i Cliffs of Moher dell’Irlanda ma senza il fascino esotico di Thule; isola solitaria e difficoltosa, da raggiungere corazzati in moderni indumenti tecnici. Altro che il ruvido mantello di lana dell’antico esploratore. E sono gridolini d’ammirazione, frisson lungo la schiena. Poi sfogli i giornali e Thule sprofonda, non nel mare in burrasca ma in una breve di cronaca: le Fær Øer chiudono un fine settimana per difendere la natura dalle frotte di turisti. L’ultima Thule è diventata penultima. Glielo diciamo ai fotografi con voglia di Pitheas? E.P.