Pepi Merisio ci ha lasciato. Un grande fotografo, uno dei più grandi fotografi Italiani. Non amava la ribalta, gli eccessi e ci ha regalato bellissime immagini che raccontano la trasformazione del nostro Paese dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Da fotoamatore alle prime armi mi aveva molto colpito la serie d’immagini “In morte dello zio Giovanni”. Da redattore di riviste fotografiche lo conobbi una quindicina d’anni dopo. Ne divenni amico. Ci s’incontrava e si parlava anche di fotografia. È importante quel “anche”. Dà la misura dell’uomo. Scrissi che era un filosofo imprestato alla fotografia. Mi pregò di non esagerare. Il pudore, la serietà erano la sua cifra. Gli chiesi perché, nel suo archivio, non ci fossero le immagini stereotipo degli anni che qualcuno definì, poi, formidabili: manifestazioni, proteste, denunce. Mi guardò con quel suo sguardo pacato, lievemente ironico e rispose: ”…La gente, in quegli anni, continuò a vivere, a lavorare, a sperare, a condurre la vita dell’uomo…”.
Ha raccontato la vita, quella di tutti noi. La trasformazione del nostro Paese da contadino a industriale non dimenticando mai la pìetas. Senza indulgere nella ricerca vana d’impossibili neiges d’antan. “…Sono calato nel soggetto che fotografo - mi confidò - Solo nel momento in cui faccio il mio lavoro, poi mi trovo a vivere la società d’oggi. Non voglio certo riproporre un revival del mondo contadino”.
Lavoravo a un libro sulle tradizioni di una valle occitana del Piemonte. Mi chiese se poteva accompagnarmi e fare qualche foto. Quel giorno passai più tempo a guardare e imparare come lavorava che a scattare foto per il mio libro. Non rubava momenti, non prevaricava, non si nascondeva, magari complice il teleobiettivo. “…Se mi accorgo che chi sto per riprendere è infastidito per la mia presenza, smetto di fotografare”.
A lungo aveva seguito il pontificato di Paolo VI, dai viaggi ufficiali alla vita di tutti i giorni. “…Avevo ottenuto il permesso di fotografarlo mentre passeggiava nei giardini di Castel Gandolfo - racconta divertito - Ma non volevo essere invadente. Mi nascosi dietro un cespuglio che dava sul sentiero che percorreva tutti i giorni. Lo vedo arrivare, in compagnia del segretario e di un cardinale. Parlano. Cerco di essere il più invisibile possibile e arrivato a qualche metro da me si ferma e, sorridendo, mi intima - Merisio, esca da quel cespuglio - ”.
Negli anni mi trovai a scrivere di lui, per un suo libro, per una sua monografia. Ogni volta, bonariamente, mi raccomandava di non esagerare. Nell’ultimo anno, causa la pandemia, sono state solamente telefonate. L’ultima per gli auguri di Natale e l’ennesima promessa di incontrarci presto. Poi, una mattina, apri Facebook e vedi la pagina dell’Eco di Bergamo con la notizia. E.P.
Una nostra breve intervista di qualche anno fa